Giacinto Spagnoletti «Antologia della poesia italiana contemporanea» (1947)

Recensione a Giacinto Spagnoletti, Antologia della poesia italiana contemporanea (Firenze, Vallecchi, 1946), «Belfagor», a. II, n. 4, Firenze, 15 luglio 1947, pp. 500-502.

GIACINTO SPAGNOLETTI «Antologia della poesia italiana contemporanea»

Il poeta Giacinto Spagnoletti (conosciuto da noi nel ’41 con Sonetti ed altre poesie) ci ha offerto un’abbondante antologia da Pascoli-D’Annunzio ai recentissimi, a quelli che «hanno appena concesso un’immagine di sé, e del loro avvenire non lasciano seguire che pallide approssimazioni». Generosità che c’era già per il loro tempo nei Poeti d’oggi, di Papini e Pancrazi, che piú si limitava in un canone di 20 poeti nei Lirici nuovi di Anceschi. Per quest’ultimo la fortuna dei nostri contemporanei «eletti» era veramente apprezzabile e nuova (si pensi alla ritrosia delle ottocentesche crestomazie e i loro riguardi di fronte alla censura del tempo), poiché comportava, oltre la scelta e una cura di testo rigorosa (non manca invece nell’antologia di Spagnoletti qualche errore, come il v. 6 di Lavandaie in cui «coi tonfi spersi» va corretto in «con tonfi spessi»), un apparato critico-bibliografico utilissimo, confortato dai testi critici piú autorizzati e specializzati e da dichiarazioni autentiche di poetica che si inserivano nel criterio con cui l’autore aveva composto la sua opera. Storia della coscienza poetica contemporanea e delle sue realizzazioni presentate come parti di uno sviluppo personale in un’aura di civiltà letteraria, anche se l’antologia si dichiarava «rigorosamente tendenziosa» ed aliena da uno spiegato «panorama obbiettivo» e da una facile raccolta alla Walch o alla Giacobbe. Anche Spagnoletti rifugge certamente da una presentazione «qualunque» e conforta ugualmente la sua scelta di repertori bibliografici, di introduzioni biografiche (qualche volta incerte fra lo schema e il gusto di indecise eleganza con rilievi poco incisivi, come la qualifica di «memorabile» per la costituzione della Reggenza del Carnaro di D’Annunzio), e di un amplissimo discorso critico introduttivo che merita un particolare giudizio; ma si fanno notare sproporzioni di scelta (ad esempio fra Betocchi e Quasimodo e Vigolo), esclusioni rilevate da ammissioni troppo di «circolo» e dentro i vari prescelti, accanto a quelle affermazioni che indicano ormai un concretarsi in consensi (Inverno per Saba, Canto alle rondini per Gatto, Sera in Liguria per Cardarelli, tanto per citare alcuni dei numerosissimi casi), esclusioni assai discutibili se si tendeva ad un’antologia che riassumesse l’opera della critica ad una storia dei punti piú alti della lirica contemporanea e ad una illuminazione delle singole poetiche. Come può mancare in un’antologia abbondante la Sera fiesolana sostituita dalla Tenzone? Non si tratta di quelle «simpatie» che non mancano neppure alla serietà degli specialisti e per cui qualcuno può sentire la mancanza di questo o di quel mottetto montaliano, ma della mancanza di una maggiore precisione storica in un’abbondanza non sempre ben controllata. Ed è chiaro che a parte le difficoltà inesistenti nella poesia contemporanea tutta, come intenzioni, lirica, una antologia poetica deve mirare alla distinzione di volti e alla continuità di atmosfera e l’aggiunta coscienza critica deve funzionare storicamente dal di dentro non per assurde obbiettività, ma per aiuto dell’impulso di un organismo a presentarsi nei suoi tratti essenziali, non in esemplari neoclassici di platonica adeguazione. E veramente pare che un’impostazione piú impegnativa volesse guidare l’autore che poi si è piú abbandonato a criteri «agonistici», a ricerche di presentimenti, al gusto quasi di una storia, di un racconto suo che per essere tale avrebbe viceversa dovuto accentuare piú liberamente la sua particolare tendenziosità sulla via di questa dichiarazione: «Mi bastava aver coscienza – ed esprimerla quindi – di possedere la chiave per un libro: come a volte si indovina la trama di un romanzo e ci si sforza di offrirla agevolmente attraverso il racconto; non importa poi se il racconto sia sbagliato, imperfetto o sfacciato» (p. 7).

Ed è questa incertezza che dalla scelta, pure sempre gradita ed utilissima a chi ama la poesia contemporanea, passa nel saggio introduttivo «Il cammino della poesia contemporanea» (non doveva, come si annunciava qualche anno fa, collaborare a questa antologia Carlo Bo?) da Pascoli e D’Annunzio con un solido muro di appoggio, alle esperienze contemporanee, ai saggi piú provvisori e intrisi di poesia in fermento: questa è l’ambizione del saggista, e l’inizio si muove con una precisione di sguardo abituata a quella sistemazione del periodo fine Ottocento-primo Novecento ormai accettata e rivissuta da vari critici in una comune e pacifica adesione alla tesi di un distacco e di una rivoluzione poetica prodottasi da noi con una sorta di ritardo e sfasamento rispetto al cammino «de Baudelaire au surrèalisme», che nella versione raymondiana Spagnoletti ha giustamente sempre di fronte. In quella «fluttuazione di elementi poetici» fra i due secoli, Pascoli e D’Annunzio vengono ricercati con attacco e distacco rispetto alla tradizione romantica e come nuova tradizione presente alla lirica del Novecento. E qui alcune frasi di Spagnoletti si incontrano davvero con il problema che interessa un discorso sulla nascita della poesia contemporanea: «Il processo di disgregazione del discorso oggettivo, già portato avanti da Pascoli, viene ripreso intensamente da D’Annunzio, che crea nell’interno di un discorso oratorio un’infinita ascoltazione dell’elemento verbale» (p. 22).

«L’influenza di D’Annunzio sui nuovi fu benefica proprio laddove la sua poesia mostrò quelle pieghe caratteristiche della voce, che abbiamo notato: senso di umiltà, impoverimento della sensualità ecc. Fu benefica come una visibile offerta di intimità, fuori del tumulto esasperato del nietzschianesimo e dell’eroicità trionfante nell’età di mezzo del poeta. Insieme all’influenza della poesia pascoliana, fu essa a determinare, in accordo alle esigenze che si venivano determinando, la nuova direzione del sentimento poetico, che frutterà, non importa in qual modo, decisamente per tutti» (p. 24). E i passaggi alla poesia crepuscolare in un terreno fortemente preparato sono operati non come ripetizione scolastica, ma con un gusto di definizione assai notevole e poco sciupato dalla volontà di un impreziosimento di linguaggio e di citazioni: «Il mondo ricco di povertà del Poema paradisiaco si è tramutato in un mondo reale di povertà» dice per Corazzini, e per Di Giacomo «l’espressione piú certa ed eterna dell’impressionismo poetico italiano». Una mancanza di simpatia e di distacco storico portano invece, accanto all’indulgenza piú larga per Govoni o per Papini, a pagine assai scadenti e polemiche nei riguardi della poesia di Gozzano. Se era giusta la diffidenza per la retorica gozzaniana e per lo stesso amore per il Gozzano delle «cose» che piacque a Pancrazi, ciò che Spagnoletti intravvede nel suo giudizio negativo («privo di autentica vita spirituale, questa persona ingannò in una serie di corrispondenze con il proprio tempo interiore, contato quasi esclusivamente sulla nostalgia, un’inguaribile attesa di romanzo», p. 38) poteva ben suggerirgli quella soluzione positiva di «composizione» che nel Gozzano migliore supera la immagini sbiadite dell’auto-presentazione, le rafforza e le liricizza in tensione di «poème», come io cercai di mostrare in un articolo su «La Ruota» del 1940. E certo se la lontananza ha sempre piú appiattito in valore di scadente cartellone le velleità artistiche dei futuristi, nell’impostazione data allo studio come formazione della nuova lingua poetica per attacco e distacco, qualcosa piú della giusta citazione del Raymond poteva essere adibito alla precisazione di un volto esteriore, ma ricco di propulsioni e di stimoli entro una crisi allora non risolta e a cui d’altra parte portavano arricchimenti essenziali il temperamento vociano e l’integralismo di quella cultura che Spagnoletti bene intuisce attraverso la presenza di Michelstädter.

Con Campana e la svolta decisiva della nostra poesia, lo sforzo del critico di enucleare la sostanza che illumina la nuova poetica, di sistemare il piano che distingue una costruzione che pure prosegue una linea già precedentemente vitale, ma priva quasi della autocoscienza che a quel punto si accenderebbe, si fa piú impegnativo, ma anche piú arbitrario, involuto, e il linguaggio coerentemente si affina e si impreziosisce, si tende e si complica, oscilla fra elegante discorsività («Novaro è il secondo episodio della poesia ligure del nostro secolo dopo Ceccardo. Il terzo è Sbarbaro...»), enfasi di clima romantico (l’autenticazione illustre del Foscolo per l’errare di Campana) e approssimazione che vuole cogliere l’ansia segreta dell’ermetismo nelle sue singole realizzazioni. E in verità ci sembra che risultati molto migliori vengano raggiunti dove, fuori anche di una scorrevolezza che si compensa con momenti di stile chiuso, l’autore si svolge in giudizi piú nitidi anche se piú coincidenti con linee ormai affermate nella critica, come la definizione dei due linguaggi del primo Ungaretti o la limitazione anche eccessiva di Onofri: «Si è osservato che la presenza di questo mondo di visioni celesti... annulla ogni elemento psicologico nativo del poeta col suo splendore, ma una lettura anche sommaria incontra costantemente il sospetto che tale elemento psicologico si ritrovi in agguato ogni momento, convertito nell’aggettivazione spuria e suadente, di timbro simbolistico... Resterà nella nostra memoria come una musica inseguita dalla volontà» (p. 92); o la buona precisazione dell’efficacia letteraria, come testo di nuova tradizione, di Montale nei confronti di Ungaretti, o il disegno piú deciso dell’ingresso degli «uomini nuovi» e della loro integrale affermazione di «poesia e verità»: «Questo tempo sicuro di poesia si presenta agli occhi di innumerevoli spettatori frettolosi come una strana pausa, una facile svolta classicista del perturbamento iniziale avvenuto sotto i segni dell’avventura e della rivolta per un nuovo ordine di parola ed è invece la maggiore rivoluzione a cui ci è dato di assistere alle soglie di un’epoca nuova, una necessaria rivendicazione dei diritti segreti della poesia, quei diritti che l’eredità pascoliana e dannunziana e le successive crisi crepuscolari e futuriste avevano ritardato e che adesso si propongono netti» (p. 81). Dove però è da notare l’eccesso illuministico di considerare una storia di errori da cui scaturisce una attuale verità. Eccesso che vena tutta quest’ultima parte del saggio, sia negli esami sommari e poco originali dei maggiori (particolarmente scadenti le pagine su Saba), un po’ alla luce di altri critici e specialmente a quella, ci sembra, dell’amico Contini, sia in presentazioni piú spregiudicate come quella assai riuscita di Sinisgalli, di Luzi, o come quelle piú pallide e frettolose di Penna ecc. Finché si entra nella parte dei «giovani» cui fa da preludio una dichiarazione piú di fede che di referto: «Per giungere ad uno sviluppo totale di un’integrazione nell’Assoluto della parola poetica, risvegliata alla sua originaria tensione gnosoeologica, dobbiamo esaminare l’opera dei piú giovani, che piú direttamente si riattaccavano a questa esigenza» (p. 142). Che è poi piuttosto un programma di gruppo, come di gruppo appaiono piuttosto alcune ultime discussioni piú in funzione di poetica da attuare che non di critica. Con molti auguri di un compagno di mestiere, con molte ansie sincere di chi partecipa come a vita propria alla attività poetica del suo tempo, Spagnoletti passa dal tono storico con cui aveva iniziato il suo saggio a quello piú sentimentale e provvisorio che poteva avere il Marradi nelle sue presentazioni di poeti giovani. Naturalmente anche questo tono ha la sua importanza vitale e se, come dicevamo, i due toni ci sembrano giustapposti, non vorremmo perdere, anche se isolata ed aggiunta, la finale dichiarazione di «contemporaneità» attiva, che giustifica l’abbondanza dell’antologia e la generosità del presentatore. «Abbiamo ascoltato quelle voci che piú ci dessero il senso di una risoluzione personale, attiva e integra se non sempre totalmente raggiunta da un’intensa vicissitudine spirituale: quelle voci che s’insinueranno nel vivo di un secolo o ritorneranno ancora verso l’informe, appena destata la loro immagine fisica. Questo non importa: esse ci assicurano che una gestazione esiste, al di là dei termini facilmente comparabili di un gusto e di un’atmosfera mediani» (p. 182). E ben si capisce che le voci su cui si posa la trepida attesa sono quelle dei «giovani» e che in fondo tutta l’Antologia è, anche se non dichiaratamente, sentita come introduzione a questa «gestazione», come presa di coscienza di un fermento che attualmente matura nella storia che piú interessa il poeta «giovane».